“Trattato nel quale, sotto la persona d’un vecchio idiota ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de’ modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato Galateo ovvero de’ costumi.” Questo è il titolo completo del famosissimo manuale sulle buone maniere scritto (probabilmente dopo il 1551, ma pubblicato postumo nel 1558) da Monsignor Della Casa, letterato e scrittore di origine fiorentina nonché esteta, amante della vita mondana e del cerimoniale. Dopo gli studi umanistici, l’intellettuale optò per la carriera ecclesiastica, nota allora per garantire un agiato stile di vita, fino a diventare Arcivescovo di Benevento nel 1544 e, nel medesimo anno, nunzio apostolico a Venezia.

In laguna il religioso trovò il palco ideale per le sue aspirazioni: un palazzetto sul Canal Grande che divenne il luogo d’incontro della migliore nobiltà cittadina, insieme ad artisti, poeti e letterati.

Qui redasse numerosi versi e trattati tra cui due orazioni in volgare dirette alla Repubblica di Venezia e a Carlo V, oltre al trattatello in latino ciceroniano “Quaestio lepidissima” dove si interrogava sul valore del matrimonio.

Già messo in cattiva luce per la protezione data al fuggiasco Lorenzino de’ Medici nel 1544, il Monsignore non ricevette mai la porpora cardinalizia e, con la morte del suo protettore Alessandro Farnese e l’elezione di Papa Giulio III, cadde in disgrazia e si ritirò quindi a Nervesa della Battaglia presso l’Abbazia benedettina di Sant’Eustachio, alle pendici del Montello. Oggi ne rimangono solo fatiscenti ruderi, perché è qui che, con grande probabilità, il dotto Giovanni Della Casa scrisse il testo che gli diede la popolarità e che rimase un caposaldo nella letteratura del bon ton.