Una sposa per amica (intima e sfigata)

Confessioni di una damigella che non ha l’età – forse nemmeno la pazienza o la voglia – di fare da damigella

Quando la mia amica Alba mi ha annunciato che aveva deciso di sposarsi, ho realizzato che forse eravamo uscite dall’adolescenza, e – quasi senza accorgercene – eravamo giunte a quell’età in cui bisognava almeno ipotizzare di compiere il Grande Passo. Ho pensato allora, con un velo e uno strascico di nostalgia, a tutte le av- venture vissute insieme fino a quel momento. Eravamo state compagne di classe alle elementari, alle medie e al liceo. In quelle aule più o meno puzzolenti e sempre meno decorate era fiorita la nostra amicizia, coi suoi alti e bassi e le inevitabili scornate. Queste ultime avevano avuto a che fare con l’elemento chimico periodico chiama- to Maschio (non cercatelo sulla tavola di Mendeleev: lì non trova classifica- zione).

Succedeva, a volte, che io e Alba perdessimo la testa – mai metafora fu più adeguata – per i tre tipi di stronzi che in genere salgono sul podio della Competizione Perdente.

Ah! Non inquietatevi per la parola stronzo: è di origine longobarda, entrata nell’uso col significato letterale di massa fecale solida di forma cilindrica, ma soprattutto come metafora di persona inetta, stupida, infida, malvagia e spregevole nel 1299: questo significa che la usiamo da almeno 700 anni con crescente successo.

Lo stronzo uno. Lo stronzo uno, si diceva, era quello figo. Figo a detta di tutti, sua madre compresa. Quello nato belloccio, con tanto di occhi azzurro- pianista-sull’oceano (è un colore, fidatevi), con chioma abbondante, biondiccia, vagamente inanellata quando le ciocche toccavano danzando le p̶a̶l̶l̶e̶ spalle, e una pelurietta rossiccia- rosata che ammorbidiva la mascella geometrizzante. Il figo del liceo era il maschio a cui miravano tutte, in ma- niera palese – le ardimentose – o con strategie meno invasive – le timidotte imbranate.

Io e Alba rientravamo in quest’ultima categoria, per cui ci limitavamo a indirizzare sguardi più o meno sfuggenti al figo quando colui passeggiava nel corridoio della scuola come se fosse il red carpet della festa degli Oscar.

Un giorno Alba osò rivolgergli un ciao. Lui passò oltre senza risponde- re. Poi toccò a me. Ero dietro di lui, quando si voltò e accennò un saluto con sorriso incorporato: m’imporpo- rai e risposi con un sorriso e un cenno della mano. Lui si bloccò, mi squadrò e con voce soavissima mi disse: “Non ho salutato te”.

La relazione finì ovviamente prima di cominciare. E io e Alba indiriz- zammo il cuore parzialmente infran- to verso il fighetto – per comodità lochiameremo lo Stronzo Due. Un po’ meno belloccio del numero uno, un po’ meno biondo, con gli occhi un po’ meno azzurri (erano marroni), il fighetto un dì si premurò di rivolgerci un invito: festeggiava il quindici-sedicesmo compleanno e ci voleva alla sua festa. In sollucchero (questa è parola caduta in disuso: non usatela o farete la figura barbina che sto facendo in questo istante) io e Alba sprizzammo scintille dagli occhi, dalle gote, dalla fronte, dall’ombelico…finché lui non precisò: “Venite con i vostri morosi, se li avete, se no state a casa perché alla mia festa siamo tutti accoppiati”.

Lo Stronzo Tre è un peccato chiamarlo così. A scuola era la terza scel- ta in quanto a bellezza ma se la tirava parecchio. Camminava su e giù per i corridoi cercando la compagna ideale. Faceva il difficile. Sembrava interessato a tutte e a nessuna in particolare. Sembrava fiero della sua tenace sin-gletudine, finché un giorno – così mi disse Alba babalbebettando – non invitò la mia amica a uscire. Lei si mise in ghingheri. Io le prestai a malincuore il mio supertubino nero mai messo e lei uscì circondata da un alone profumato di aspettative. Rientrò a casa mia un paio di ore dopo: lui non si era presen- tato e lei – era forse gennaio-febbraio – era stata a battere brocche in tubi- no nero-giacchina leggera per tutto il tempo.

“E non potevi tornare prima?” dissi ad Alba mostrando compassionevole afflato. Lei pianse. Lo Stronzo Tre di lì a qualche giorno diede un appunta- mento anche a me. Nello stesso posto di Alba. Ovviamente non ci andai. Eh sì, sarebbe stato bello, ma a quindici anni si è stupidi davvero quante cazzate si fanno a quell’età, e io la feci. Mi presentai all’appuntamento (col tu- bino nero, la giacca leggera…tanto lui mica avevo visto quella mise), aspettai due ore, mi congelai e tornai tra le braccia della mia amica che mi sollevò il morale con una frase che ricorderò per sempre: “Che sfigate che siamo”. Dopo il liceo Alba e io scoprimmo gli uomini (non li chiamavamo più maschi). Lo fece soprattutto Alba a dire il vero: uscì con uomini pelati, calvi, pelati, calvi. Uscì persino con lo Stronzo Uno che aveva perso le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi, dopo un passaggio alla frontiera della stempiatura, era diventato calvo come un bulbo di narciso.

L’orizzonte sembrava irrigidito da im- probabili relazioni. Se non che Alba improvvisamente mi informava di aver deciso di sposarsi. “A dire il vero – aveva precisato – non è che l’abbia proprio deciso io. Sono stati i miei genitori. Hanno detto che erano stufi di avermi tra i piedi e che mi avevano trovato il marito ideale: il dirimpetta- io, neopensionato, scapolo, un metro e settanta di circonferenza panza. L’ho guardato e ho pensato che come ma- terassino su cui poltrire guardando la tivù mi stava bene. E gli ho detto sì”.

Ho sospirato. Allora era davvero finita la giovinezza, l’età della spensieratezza. Eppure io e Alba avevamo appena compiuto 50 anni. Eravamo ancora in quella fase della vita in cui una perso- na valuta le possibilità dell’esistenza, si chiede quale sia il suo talento, la sua passione, in quale campo potrà emergere una volta entrata nel mondo del lavoro.

Alba ha detto che si sposerà in giallo senape, un colore che si adatta al grigiopepe dei suoi capelli. E ha chiesto a me, la sua damigella d’ònere, che cosa avrei indossato alla cerimonia.

Ho optato per un tubino nero, messo solo una volta a un appuntamento mancato. Stando nell’armadio si era però ristretto parecchio: sono riuscita a infilarci solo un polpaccio prima che si strappasse a metà. Era un segno, ho pensato. Non è che fossimo io e Alba le sfigate: lo era il tubino.

Per il matrimonio della mia migliore amica indosserò quindi una bella tuta di pile verde zucchina con delle sneakers rosa pompelmo. Tanto alla cerimonia ci saranno solo i suoi genitori, la mia famiglia, i suoi nonni e forse il gatto William, se non si ostinerà a masticare il farfallino che ho scelto appositamente per lui, vi- sto che farà da testimone.

Emanuela Da Ros