Io gioco “in casa”

Quanti sono i modi di dire legati alla casa? Molti più di quelli che ricordiamo. E alcuni sono proprio equivoci

Io gioco in casa. Ho trovato un pallone – sgonfio, ma è un dettaglio – dentro il cesto della biancheria zozza. Come ci sia finito è uno dei tanti misteri che costellano la vita domestica. Ho il sospetto che in un eccesso di fantasia qualcuno abbia scambiato il cesto delle mutande eccetera per un cesto da basket e si sia allenato a fare canestro. Anche se in genere il canestro da basket si trova in alto. Non a livello di piastrellame.

Comunque è stata una piacevole sorpresa. Ho preso il pallone, infilato le sneakers – le ciabatte pelose con le orecchie da coniglio erano ingombranti – e mi sono messa a palleggiare in salotto. Risultato: una pianta rovesciata, un soprammobile di vetro a forma di lumachina sezionato in otto pezzi, e una botta sul ginocchio presa sullo spigolo del tavolino. Un pareggio, se si fosse trattato di un match. Ma era solo un riscaldamento, o allenamento se preferite. A un certo punto – erano le cinque del mattino e avevo giocato più o meno mezz’ora – ho sentito suonare il campanello. Il postino? Mai visto un postino che consegna una raccomandata all’alba. Si sarebbe trattato di fantaposta.

In effetti era il vicino del piano di sotto. Burbero è il nome che gli abbiamo affibbiato, in virtù dei suoi modi affabili. In realtà si chiama Pietro.

  • Ma le sembra l’ora? – mi ha detto.

Sì: lui non saluta con un buongiorno/buonasera. Saluta con una collezione di rimproveri: il parcheggio non a norma, lo zerbino inzaccherato, il sacco della plastica esposto nel giorno sbagliato, la bici che non deve stare lì.

L’ho invitato a bere un caffè. Si è imbufalito: “Non ha visto che ore sono? Come si permette di fare confusione appena alzata? I suoi tump-tump hanno svegliato tutto il condominio”.

Ho il sospetto che il mio caffè non gli piaccia. E non capisco perché visto che non l’ha mai assaggiato.

  • Ho proprio bisogno di un avversario – ho esclamato entusiasta mostrandogli il pallone. – Qualcuno che stia in porta – ho aggiunto, visto che non si schiodava dalla soglia.

Gli ho lanciato il pallone. Parato (Burbero ha il talento di Donnarumma).

  • Questo è sequestrato. – ha detto andandosene via col bottino. Cioè col pallone.

Presumibilmente verso gli spogliatoi.

Ho meditato (anche perché continuare a palleggiare col vaso della pianta rovesciata era oltremodo scomodo). Ho pensato che l’espressione “giocare in casa” di solito è foriera di esiti positivi. La squadra che “gioca in casa” è favorita. Dal fatto che conosce il campo, o che sugli spalti ha la propria tifoseria a sostenerla.

Nel mio condominio invece, per una sorta di contrappasso semantico, la stessa locuzione perde di valore. Anzi ne acquista uno deprezzato. Non è il fischio dell’arbitro a interrompere la gara, ma il campanello a cui s’è incollato il dito del vicino. Non ci sono la ola, le trombette che fanno squeak, gli striscioni con scritto Viva Viva o i commenti  tecnici a bordo campo, cioè a margine corridoio. Giocare in casa, se si è in casa, assume un significato molto prosaico. E tutto – ho concluso nella mia meditazione – perché manca la metaforizzazione dell’espressione polirematica (chiamiamola impropriamente così). Eppure i modi di dire legati alla casa – come edificio insostituibile, bene primario eccetera – sono spesso figurativi, allusivi, connotativi.

Il mio pallone, per esempio. Dopo l’arresto/sequestro è finito “a casa di Pietro” che in senso figurato vuol dire “essere in prigione”. L’espressione deriva infatti da un modo di dire più esteso: “a casa di Pietro dove sono le finestre senza vetro”.

Ma le espressioni e locuzioni che contengono la parola casa sono svariate.

“Essere di casa” significa non sentirsi estraneo o “in prestito” a casa di un amico, un vicino, un parente. Significa azzerare le distanze. E‘ simile all’espressione coccolissima: “Fai come se fossi a casa tua”. Un invito a spaparanzarsi sul divano, e sbriciolare i bibanesi guardando la prima stagione dei Durrell.

Per non parlare dei significati che può assumere il semplice complemento di specificazione “di casa”. Una “donna di casa” per il mio vicino Burbero è sicuramente una donna onesta: una che quotidie sbatte le lenzuola dal davanzale, fa la lavastoviglie a ore tecniche, innaffia i gerani con quel tanto di acqua che basta a non produrre la cascatella niagaresca sul balcone sottostante, che non sbatte la tovaglia alla finestra senza prima aver controllato che dentro non ci siano dei rimasugli di pizza ai carciofini, che fa il bucato, la spesa, la polvere senza ammorbare l’aria di due piani, che parcheggia in modo civile, non ha grilli per la testa (solo qualche bigodino) e soprattutto non si mette a palleggiare all’alba. Una “donna di casa” è l’emblema del quieto buon vivere, ma dev’essere proprio una donna donna con la a finale, non con la schwa (sia mai).

E che dire del pane o della pasta fatti “in casa”? della soppressa “de casa(da)”? del vestito confezionato “in casa”, dei compiti “per casa”,  dell’aria “di casa”? La casa è nei diversi modi di dire un elemento familiare, intimo, genuino, prezioso. Basta che non ci palleggi.

Emanuela Da Ros