Architette di resilienza

Selezionate alla Biennale di Venezia per un progetto di disintossicazione del mondo dell’architettura dallo strapotere maschile. Architette (e docenti) credono nell’avventura meravigliosa del fare, del costruire: edifici più sostenibili e una società senza discriminazioni di genere

La loro mission? Tra le altre (professionalmente validissime) c’è anche quella di disintossicare l’architettura dalle ineguaglianze di genere.

La trevigiana Marta Baretti e la coneglianese Sara Carbonera, titolari dello studio di architettura Arbau sono fra le protagoniste del progetto “Detoxing Architecture from Inequalities: a Plural Act” al Padiglione Italia della Biennale di Venezia.

Un riconoscimento che arriva alle due professioniste dopo aver vinto la prima edizione del Premio Anna Taddei rivolto alle donne che si occupano di architettura.

“In Italia – affermano Baretti e Carbonera – la questione di genere è ancora un problema in tanti ambiti professionali. Nella nostra professione le donne sono oltre il 40%, ma si vedono ancora molto poco. Non sono protagoniste alla pari in termini di opportunità, incarichi, retribuzione, ma anche di visibilità e rappresentatività. Dove sono le architette? Cosa fanno? Il lavoro svolto dal collettivo RebelArchitette è proprio rivolto a mettere in luce i tanti profili d’eccellenza femminile e a fornire modelli alle giovani generazioni. Le donne troppo spesso lavorano in maniera invisibile negli studi di architettura i cui titolari sono quasi sempre uomini, in parte perché la nostra professione richiede una dedizione tale purtroppo difficile da conciliare con una famiglia. Ma anche perché si riscontra ancora una diffidenza culturale, anche inconscia, ma forte e penalizzante, a dare fiducia a team femminili da parte della committenza”

Architette, la discriminazione di genere quanto deve alle parole? Alle desinenze? A vostro parere si risolve ripulendo il lessico? Rinunciando ai pronomi declinati per genere? Geometro, dentisto e violoncellisto, sono termini che non esistono, mentre architetta esiste e non è un neolo-gismo. Non viene utilizzato perché è un termine che si presta ad equivoci, che suona male, a cui non siamo abituati perché, quello dell’architetto, come tante altre professioni, era un lavoro prettamente maschile e pertanto è stato sempre declinato al maschile. Ognuna di noi penso debba usare la declinazione che desidera, nella quale si riconosce maggiormente. Ritenere che la declinazione al femminile di un termine sia riduttiva per una professione o che non risponda a un ruolo è offensivo e significa confermare una disparità di genere, già molto evidente in Italia. Crediamo che in parte sia un problema generazionale, perché le giovani usano con maggiore disinvoltura e spontaneamente la declinazione femminile per ruoli professionali tradizionalmente indicati con termini declinati al maschile.

Perché avete scelto di diventare architette? Qual è stata la spinta autentica?

Perché idealmente è un lavoro bellissimo, perché ci piace progettare, fare, costruire. Se guardiamo al passato non mi vengono in mente architette donne.

E attualmente?

Nel passato remoto è difficile trovare architette, come è difficile trovare donne in primo piano in molte altre discipline, non certo per questioni di merito, ma per motivi di tipo culturale

e per la difficoltà anche di accedere a una formazione di settore. Nel passato recente invece e nella scena interna- zionale attuale, le architette di qualità sono molte e in qualche caso tali da aver ricevuto altissimi riconoscimenti (Zaha Hadid, Kazuyo Sejima, Yvonne Farrell e Shelley McNamara, Anne Lacaton, tutte insignite del Pritzker, il premio più importante al mondo di architettura). Proprio quest’anno la Biennale ha insignito del Leone d’Oro alla memoria Lina Bo Bardi e le stesse Sejima e Farrell-McNamara sono state curatrici di recenti Biennali. In Italia ricordiamo figure come Gae Aulenti o Cini Boeri, però generalmente le ar- chitette hanno poca visibilità e meno opportunità di ruoli di rilievo nelle grandi manifestazioni, ad esempio nei convegni. Basti pensare che una figura di rilievo, come Paolà Viganò, insigni- ta in Francia del Grand Prix de l’Urbanisme e medaglia d’oro alla carriera dalla Triennale di Milano, ha maggiore visibilità all’estero che nel nostro paese. Ma anche la siciliana Maria Giuseppina Grasso Canizzo, medaglia d’oro alla carriera dalla Triennale di Milano, una professionista di grande livello, ma lontana dai riflettori tanto amati da molti colleghi uomini.

Con il progetto della Biennale siete state definite “architette di resilienza”: di che si tratta?

Non ci piacciono i recinti. Ma in Italia le donne in generale e le architette in particolare si vedono ancora molto poco e le donne non sono “protagoniste” alla pari. Una parità lontana in termini innanzitutto di opportunità, di incarichi e di salario.

L’esposizione al Padiglione Italia dello straordinario lavoro di promozione delle figure femminili che operano in architettura svolto dal collettivo femminile RebelArchitette è un’occasione per ribadire che in Italia ci sono tantissime architette che svolgono lavori di grande qualità. Sono stati selezionati 137 profili per un’esposizione corale che mette in luce la “tossicità di genere” del nostro ambiente. L’installazione di chiama infatti “Detoxing architecture from inequalities: a plural act” e consiste un in video in cui scorrono i profili delle architette selezionate.

Il talk “Architette di Resilienza” a cui siamo state invitate insieme ad altre 15 architette, per la giornata d’apertura del Padiglione Italia alla Biennale Architettura 2021, è stata una occasione per mostrare alcuni lavori, spesso centrati proprio in luoghi o temi legati alla resilienza, intesa come capacità di adattarsi alla diversità, alla trasformazione e ad una nuova sostenibilità affrontando temi progettuali spesso originali e fuori dagli schemi. In questi termini il concetto di resilienza, a cui è dedicato il padiglione Italia “Comunità Resilienti” ci pare particolarmente adeguato e aperto verso nuove visioni di sviluppo.

La parità di genere è uno degli obiettivi dell’Agenda 2030. Credete sia raggiungibile? E come? Provocazione per provocazione: non è un po’ colpa delle stesse donne se questa discriminazione continua a sussistere?

La discriminazione di genere più forte quella contenuta nella banalità, sostenuta spesso anche da donne, che le donne “per andare avanti nella carriera devono mostrare il loro talento e valore nel lavoro”, come se per gli uomini non valesse la stessa cosa, che però non vi è necessità di ribadire. Spesso troviamo figure maschili assolutamente inadeguate e impreparate a ricoprire ruoli dirigenziali o di potere. E molto spesso sono coadiuvati da valide figure professionali femminili che riman- gono nell’ombra. Le donne a nostro avviso dovrebbero prendere maggiore consapevolezza del loro valore professionale e non aspettare di ottenere riconoscimenti per rendere visibile il loro lavoro. Lottare per ottenere ruoli importanti, così da includere maggiormente nella società anche il punto vista femminile.

Oltre che in architettura in quale ambiti vi pare che le donne stentino ad avere ruoli e riconoscimenti dovuti? In tutti i ruoli di rappresentanza, di potere o economicamente rilevanti.

Si può “far carriera” professionale e essere mamme?

Si può, ma richiede molta più energia di quanto non ne richieda “far carriera” professionale ed essere papà. Sostenibilità di genere e del vivere, dell’abitare. Quali le vostre scelte in architettura?

Arbau Studio si occupa di progetti che interessano diversi ambiti, credendo che multidisciplinarietà e multiscalarità siano alla base di un processo creativo che porta a soluzioni non banali delle complesse tematiche con- temporanee. Con lo stesso approccio, che pone attenzione alla specificità di luoghi e persone, abbiamo sviluppato progetti di rigenerazione urbana, interventi paesaggistici, progettato nuove architetture e interventi sull’esistente, spazi interni ed esterni, rendendo ogni intervento su misura, sconfinando spesso nell’unicità e nel linguaggio del mondo dell’arte, con cui vi è un forte scambio. Particolare interesse è rivolto alla specificità del territorio italiano, densamente costruito, e per questo la maggior parte dei progetti riguarda il riuso, il restyling, la riqualificazione, sia che si tratti di manufatti monumentali tutelati che di luoghi senza qualità, con l’obiettivo di restituire dignità agli edifici comuni, all’architettura del quotidiano, ai luoghi di vita delle persone.

Forse il progetto che meglio rappresenta queste scelte è quello per la struttura sociosanitaria “Centro Soranzo” a Forte Rossarol nella terraferma veneziana, perché tiene assieme i temi del recupero dell’esistente, del progetto multiscalare e multidisciplinare, che coinvolge figure diverse, dagli artisti ai neuroscienziati, oltre all’utilizzo di un materiale e di una tecnica costruttiva nella quale ci siamo specializzate negli ultimi 10 anni, quella della “prefabbricazione leggera” con pannelli in legno X-lam.

Il futuro dell’architettura?

Ripensare alla qualità degli spazi del vivere, rimettere al centro le persone, tornare a occuparsi sinceramente delle città e del paesaggio, del benessere degli abitanti, delle questioni ambientali, arginare il consumo di suolo e lo spreco energetico, evitare i formalismi e la corsa ad apparire, utilizzare materiali il più possibile naturali, riciclabili, a basso impatto ambientale, avere cura dei luoghi, valorizzare l’esistente, trasformare senza cancellare.

E.D.R.