Quanti burazzi hai portato in dote?

 

La dote! Obbligatoria fino al 1975, la “questione della dote” nei secoli passati ha messo in crisi più di una famiglia e più di un matrimonio. Fino a mezzo secolo fa – per le millennial sembrerà preistoria – le ragazze, ricche o povere in canna che fossero – dovevano prepararsi il corredo per potersi sposare. La cassapanca o il baule (o l’armadio, nei paesi austroungarici) dovevano contenere lenzuola, asciugamani, pianelle, camicie, mutande (nuove e usate)…Tra gli effetti personali – prevalentemente ricamati a mano dalla futura sposa, che aveva già la vista compromessa quando saliva all’altare – c’erano pure i pannolini. Da donna, of course!

Vi racconto una storia. Verissima. C’era una volta, 120 anni fa, una ragazza di nome Emma. Oltre al nome, di bovaristico aveva l’indole. Ma quello a cui anelava non era un sogno d’amore travolgente, piuttosto di libertà. Emma, che era nata in un teatro – il Malibràn di Venezia, dove il papà Domenico aveva il ruolo di segretario – pensava che una donna prima di sposarsi eccetera dovesse mettere a frutto i propri talenti, cogliere le opportunità della vita, fare esperienze. Crescere come persona e come donna. Così quando Manlio Boreato, nel 1902, le chiese di sposarlo, la diciassettenne Emma Pegoraro gli rispose “Va bene, ti sposo. Ma tra dieci anni”.

Manlio non fece una piega – o forse sì, non possiamo saperlo – e dopo dieci anni replicò la proposta. Questa volta – era il 1912 – e lei aveva compiuto 27 anni, Emma disse sì. Senza condizioni.

A dire il vero, la storia matrimoniale (e imprenditoriale) di Emma Pegoraro e Manlio Boreato l’abbiamo raccontata qualche Quindicinale fa, quando abbiamo ricordato che a Conegliano esisteva una delle più antiche e prestigiose Fabbriche del ghiaccio del paese. Una volta sposati, infatti, Emma e Manlio misero al mondo quattro figli e poi avviarono un’impresa destinata al successo, anche se a portarla avanti fu soprattutto Emma, visto che Manlio morì in un incidente d’auto nel 1930, due anni dopo l’apertura della fabbrica del ghiaccio.

La storia matrimoniale di Emma e Manlio su questo numero del Quindicinale ci viene in aiuto per parlare di dote. E a questo punto dovremmo aprire Wikipedia e spiegare ai millennial che la parola “dote” fino a mezzo secolo fa non era sinonimo di qualità morale o fisica. La dote era “l’insieme dei beni che la famiglia della sposa conferiva allo sposo col matrimonio”. Insomma la sposa – bene tra i beni materiali – veniva consegnata con tanto di corredo.

La storia della dote. Accertata sin dai tempi dei babilonesi – andiamo indietro di cinque mila anni – la dote, citata nel Codice di Hammurabi, era il patrimonio che veniva dato alle spose quando si maritavano e che, in caso di divorzio, tornava alla famiglia d’origine. Anche presso i Greci e i Romani esisteva la consuetudine della dote, che poteva essere diretta – se costituita da beni di famiglia della sposa –  o indiretta, se ottenuta attraverso quelli che chiameremmo “regali di nozze”. Nel VI secolo d.C., con l’imperatore Giustiniano, la dote diventa obbligatoria e – pur con varianti legislative susseguitesi nei secoli dei secoli – resta un obbligo giuridico in Italia fino al 1975, quando viene “vietata” dalla riforma del diritto di famiglia.

La dote di Emma. Quando il 7 febbraio 1912, Emma e Manlio si uniscono in matrimonio, la dote viene quantificata con tanto di carta bollata notarile. E leggere l’Elenco degli effetti mobili che Emma si porta in dote, col consenso del proprio padre, nell’incontrare matrimonio con Manlio, fa davvero sorridere.

Qualche esempio? Tra i beni portati in dote vi sono: 4 lenzuola di lino e 4 di cotone; 23 camicie da giorno e 3 da notte; 2 mattiné (che sarebbero le mantelline da indossare prima di pettinarsi); 10 paia di mutande di picquet felpato, 14 paia di mutande d’estate e 4 paia di mutande usate; 12 fazzoletti; asciugamani; tovaglie e tovaglioli; 12 pannolini e 12 burazzi, che sarebbero – pure qui wikipedia aiuta – gli strofinacci da cucina. Nel lungo elenco di “effetti mobili”, ciascuno dei quali ha il corrispettivo in lire – es: sei bluse usate sono valutate 10 lire, mentre il grembiule/traversa vale 5 lire – troviamo inoltre scialletti, abiti e scarpe per il matrimonio in chiesa e per quello in municipio, un cappello piumato per le nozze e uno “da viaggio”. Tra le suppellettili in dote c’è la caglieretta per la polenta, una stagnada di rame, un mandolino e un orologio da muro. Alla fine dell’elenco, per trenta lire, è stato aggiunto un boa.

La somma degli effetti portati in dote da Emma, nel 1912, vale complessivamente 2.028 lire e 24 centesimi che al cambio di oggi – il convertitore “storico” è in rete – corrispondono a circa 8mila euro, ma che appaiono una cifra enorme se si considera che nel 1910 uno stipendio medio impiegatizio era di circa 200 lire mensili.

La dote di Bruna. La dote di Emma mi ha incuriosito tanto da ficcanasare in altri bauli matrimoniali. Per esempio in quello di Bruna V., 93 anni, il cui matrimonio risale a 60 anni fa. “La cosa a cui tenevo di più tra quelle portate in dote – ricorda Bruna – era la bicicletta. A 16 anni, lavorando come ciclofattorina – oggi si direbbe rider – presso una bacologia vicentina, avevo ricevuto la mia prima paghetta. Ne avevo fatto buon uso: anziché spenderla per qualche capriccio l’avevo messa da parte per acquistare ciò che mi serviva davvero, cioè una bicicletta personale (all’epoca usavo quella “col tubo” di mio padre, che era scomodissima). La bici, comprata con tante paghette risparmiate, alla fine ha fatto parte della mia dote. Insieme a una macchina da cucire con tanto di mobile di noce, che ho utilizzato per mezzo secolo. Oltre a questi due tesori nel metaforico baule c’era il corredo che ogni neosposa all’epoca doveva avere con sè come le lenzuola di lino e cotone: il numero canonico era 12, ma io ne avevo otto, con 16 federe. Inoltre c’erano degli asciugamani di lino, delle camicie da notte rigorosamente bianche, perché sarebbero servite per il parto; due materassi di lana e due di crine, un copriletto, una coperta di lana (importata dall’America), acquistata con la “tessera” ancora in uso nel dopoguerra e un po’ di soldi (il mio severissimo papà era stato generoso, visto che lo sposo gli aveva ispirato simpatia).”

La biancheria portata in dote da Bruna dopo 60 anni è ancora freschissima e utilizzata anche in maniera alternativa. Gli asciugamani di lino? Sono diventati dei lenzuolini per i bisnipoti!

La dote di Giovannina. “La mia dote? Era limitata, parché no voee far indebitar me mama”. Giovannina Dal Cin, 77 anni, dice di essersi accontentata del necessario preparando il corredo: sei nezioi, tre o quattro camise da not, una vestaglia, canottiere e mutande, materassi, una trapunta, tovaglie e una coperta di lana comprata alla filanda di Pinidello. La bellezza della sua dote stava soprattutto nel baule che la conteneva e che era appartenuto a sua mamma Maria Favero. “Un baule – ricorda Giovannina – che durante la seconda guerra era stato sotterrato: fungendo da dispensa – quel baule conteneva poche derrate alimentari troppo appetibili – il posto più sicuro in cui collocarlo era stato il terreno!” Il baule di Giovannina, ereditato dalla mamma Maria, le fa tornare in mente anni terribili. “Mio padre – racconta – era stato ucciso sul Pian Cavallo, dove lavorava come cariota, l’operaio addetto all’estrazione del carbone: sorpreso dai fascisti, aveva cercato di mostrare loro il documento che lo autorizzava a essere lì, ma il suo gesto venne scambiato per un’intimidazione e gli spararono. Mia mamma poco dopo venne scambiata per un’omonima ricercata dalle milizie. Prima che l’equivoco fosse chiarito, dovette farsi due settimane di prigione: era incinta di me. Fu liberata l’11 settembre del ‘44, io nacqui il 30 novembre di quell’anno”.

Il baule di cui parla Giovannina ora è nella stanza di sua nuora Valeria Pagotto. Lei si è sposata nel 1988, e il suo baule conteneva la biancheria d’ordinanza (tovaglie, lenzuola, grembiuli, copriletti) ma soprattutto una macchina da cucire: “La mia distrazione preziosissima – dice Valeria – che utilizzo ancora perché creare con le proprie mani qualcosa dà molta più soddisfazione di un veloce acquisto”.

Ah! Quasi dimenticavamo i regali di nozze. Torniamo a 120 anni fa? Emma Pegoraro – lo sappiamo grazie a un elenco autografo conservato dalla figlia Giulia Perini Boreato – per il suo matrimonio, tra le altre cose, ricevette un orologio a pendolo, dei secchielli di rame, un servizio per vermuth e un binocolo portatile.Voi ce l’avete nell’inseparabile smartphone?

Emanuela Da Ros